Datagate Facebook – Cambridge: il popolare social network non tutela i nostri dati personali.

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“La dimensione degli utenti su Facebook è così grande da condizionare gli sviluppi dell’umanità.” Con questa frase si apre l’intervista concessa dal Garante della Privacy, Antonello Soro, a Sky Tg 24 in merito al recente scandalo Datagate Facebook – Cambridge che ha colpito il colosso Facebook e la società Cambridge Analytica.

Per comprendere realmente il significato di un’espressione tanto forte da sembrare allarmistica, e prima ancora di ripercorrere la vicenda che l’ha ispirata, proviamo a chiarire alcuni concetti di cui tutti parlano ma che in pochi realmente comprendono.

La conoscenza genera potere, e nella società moderna, globalizzata e digitale, i dati personali rappresentano un tesoro inestimabile.

In campo commerciale questo fenomeno è conosciuto come profilazione e consiste nella capacità di ottenere, con all’ausilio di sofisticati algoritmi, delle previsioni di comportamento dei consumatori, basate sull’analisi degli interessi, delle scelte, dei gusti degli stessi. 

Questo elevato numero di informazioni personali viene poi utilizzato per inviare ai singoli utenti informazioni differenziate, selezionate appositamente sulla base del profilo creato, al fine di orientarne le scelte (si pensi banalmente al sistema utilizzato da Amazon, che ci presenta continuamente prodotti a cui “potremmo” essere interessati sulla base dei nostri precedenti acquisti).

Chi possiede e controlla i dati personali, quindi, che si tratti di uno Stato o di un’azienda, è in grado di condizionare le scelte dei controllati.

E’ pertanto semplice intuire che chi ha accesso “indisturbato” ad un numero esponenziale di dati personali, ha il potere di influenzare il mondo.

Di qui il motivo dell’allarme generato dallo scandalo datagate Facebook -Cambridge.

La vicenda del Datagate Facebook

A rivelare la notizia shock è stato, come spesso accade, un cd. pentito, Christopher Wylie, giovane analista di dati, ex dipendente della società Cambridge Analytica, il quale, dopo aver partecipato all’elaborazione dell’algoritmo che analizzava i dati degli utenti di Facebook, ha denunciato l’inefficiente privacy policy del noto social network  al New York Times e al Guardian.

Il tramite utilizzato per accedere ai dati di circa 50 milioni di utenti è stato un app chiamata thisismydigitallife, che proponeva tramite la piattaforma di Facebook, sondaggi a carattere psicologico, sfruttando la politica favorevole adottata da Zuckerberg fino al 2015 nei confronti delle raccolte di dati ai fini della ricerca scientifica.

Scaricando l’applicazione, effettuando il login alla stessa tramite il profilo Facebook, gli utenti acconsentivano non solo l’accesso ai propri dati, ma anche all’intera rete degli “amici”, i quali restavano, però, del tutto ignari del fatto che l’applicazione accedesse ai loro profili (parliamo di like, post, preferenze e sinanche messaggi privati) ricavandone preziosissimi dati.

Questi dati personali, poi, in violazione di qualunque norma giuridica, nonché del regolamento imposto da Facebook, secondo quanto affermato da Wylie, sono stati ceduti senza alcun consenso da parte degli interessati, alla Cambridge Analytica, società che si occupa di consulente elettorali in tutto il mondo ed il cui vicepresidente è Steve Bannon consulente di Trump per le elezioni presidenziali.

La società, quindi, li avrebbe poi utilizzati per profilare gli utenti e riuscire, tramite messaggi elettorali personalizzati (ed in alcuni casi eticamente discutibili, si pensi ai meme ed alle fake news) ad influenzare gli esiti delle presidenziali americane.

Le reazioni al Datagate Facebook

 Cambridge Analytica, ed in particolare il vicepresidente Bannon, che, tra l’altro, ha ricoperto fino all’agosto 2017 la carica di Consigliere del Presidente Trump, hanno smentito ogni accusa, dichiarando di non aver utilizzato i dati degli utenti Facebook per la campagna elettorale di Donald Trump.

Mark Zuckerberg, invece, ha utilizzato il proprio profilo di Facebook per scusarsi pubblicamente con gli utenti coinvolti ammettendo che «Abbiamo la responsabilità di proteggere i vostri dati e se non lo facciamo non meritiamo la vostra fiducia».

L’impatto mediatico della notizia e le polemiche dallo stesso ingenerate hanno avuto già ripercussioni sul mercato finanziario al punto che, davanti alla corte federale si San Francisco è partita una class action contro Facebook dagli azionisti che lamentano enormi perdite dovute alla pessima gestione dei dati personali dimostrata dal social network.

Sulla vicenda datagate si è, inoltre, espresso, con toni severi, anche il Presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani, secondo il quale: “Le denunce riguardanti il cattivo uso dei dati degli utenti di Facebook sono una violazione inaccettabile dei diritti alla privacy dei nostri cittadini. Il Parlamento europeo indagherà appieno, chiamando le piattaforme digitali a darne conto“.

Infine, negli ultimi giorni, l’allarme e la preoccupazione sono arrivati anche nel Bel Paese.

Il Codacons, ha infatti, presentato un esposto sul datagate per appurare l’eventuale coinvolgimento nello scandalo degli utenti Facebook italiani, in risposta al quale la la Procura di Roma ha aperto un fascicolo d’indagine, per adesso privo di indagati.

di Lucrezia D’Avenia

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