Il revenge porn: art. 612 ter del Codice penale

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REVENGE PORN

Nelle ultime settimane, in riferimento a diversi fatti di cronaca, si è molto parlato di “Revenge Porn”: l’espressione, proveniente dalla lingua inglese, sta a significare “vendetta porno” e raffigura una prassi, purtroppo, sempre più frequente, che prevede la condivisione di immagini o video intimi online, senza il consenso dei soggetti rappresentati.

Affinché si integri tale fattispecie è irrilevante la volontà o meno della vittima nella produzione del contenuto, la cui diffusione, contraria alla volontà di quest’ultima, ha l’obiettivo di umiliarla a fini vendicativi. Tale comportamento a partire dal 9 agosto 2019 costituisce reato, anche in Italia, grazie all’entrata in vigore del cd. Codice Rosso. In particolare, il Codice Rosso (legge 19 luglio 2019, n. 69), recante “modifiche al Codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere“, ha determinato l’introduzione dell’art. 612 ter del Codice penale, rubricato “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti. Ad un anno da tale modifica, nel dossier “Un anno di codice rosso” i dati riportati parlano di 1083 indagini avviate, di cui per 121 è arrivata la richiesta di rinvio a giudizio e per 226 quella di archiviazione. Sono state, inoltre, emesse 8 sentenze: 2 condanne con rito abbreviato, 3 patteggiamenti, 1 condanna in Tribunale, 2 proscioglimenti, 3 processi conclusi in Tribunale, 13 ancora in corso.

 

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Analizzando l’articolo 612 ter nella sua formulazione, si prevede al primo comma che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video di organi sessuali o a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro”. Si tratta, dunque, di un reato comune, potendo essere commesso da “chiunque”, e non rileva, a differenza di quanto previsto al secondo comma, il fine che ha determinato la condotta (infatti, l’elemento soggettivo richiesto i questo caso è il dolo generico).

Al secondo comma dell’art, 612 ter, si legge che “la stessa pena -la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro- si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento”. In tal caso, il soggetto che “invia, consegna, cede, pubblica o diffonde” non coincide con colui che ha realizzato tali contenuti ma è colui che ha acquisito tale materiale e procede alla sua diffusione per un fine specifico, ovvero la creazione di un danno in capo ai soggetti rappresentati. In tal caso si parla, infatti, di dolo specifico, in quanto l’agente assume la condotta al consapevole fine di recare nocumento.

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Il reato che si concretizza nelle ipotesi enunciate rientra tra i reati plurioffensivi, determinando la lesione di più beni giuridici tra i quali l’immagine, la reputazione, l’onore, la riservatezza, il decoro, ecc… Il comportamento dell’agente, infatti, determina la lesione dei cd. diritti della personalità, intesi come diritti assoluti che vengono riconosciuti a ciascuna persona in quanto tale, ed è da quanto detto che trova spiegazione la collocazione codicistica di tale reato, rientrando la disposizione normativa nel Titolo XII (delitti contro la persona), Capo III (delitti contro la libertà individuale), Sezione II (delitti contro la libertà personale).

Al terzo e quarto comma dell’art. 612 ter si disciplinano le circostanze aggravanti: “la pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici.

La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza”.

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 In tali casi il disvalore del reato è, infatti, aumentato dalla situazione in cui versa la persona offesa e/o dal legame che sussiste tra quest’ultima e l’agente.

L’ultimo comma dell’art. 612 ter prevede, infine, il regime di procedibilità, sancendo che “il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. Si procederà tuttavia d’ufficio nei casi di cui al quarto comma, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio”. Si sottolinea in tal caso la coerenza con il regime previsto all’art. 612 bis in tema di “atti persecutori”.

Marta Strazzullo

 

 

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