Facebook, in Borsa il crollo più grande della storia.

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Da quando esiste il mercato azionario in America è la maggiore distruzione di valore da parte di un’azienda quotata. Per Mark Zuckerberg, il conto è di oltre 16 miliardi. A causare la caduta sul listino del Nasdaq, dove Facebook ieri è arrivata a perdere quasi il 20%, non sono stati tanto i risultati economici ma è soprattutto la prospettiva che la frenata del fatturato continuerà.

La pesante caduta di ieri racconta che la fiducia verso il social network si è incrinata e si comincia a metterne in dubbio lo stesso modello di business.

Da un lato Facebook è infatti costretta a fare in conti con la richiesta di maggiore protezione e tutela dei dati personali, non solo in Europa, dove a maggio è entrata in vigore il nuovo regolamento sulla privacy, ma anche in America, dopo lo scandalo di Cambridge Analytica.

La notizia che la società di consulenza politica aveva utilizzato senza consenso informazioni personali identificabili di milioni di utenti americani ed europei per influenzarne le opinioni politiche lo scorso marzo ha provocato un altro drammatico crollo del titolo in Borsa e ha obbligato il co-fondatore e Ceo, Mark Zuckerberg, a scusarsi e promettere rimedi davanti al Congresso Usa e al Parlamento europeo.

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Dall’altro lato la società californiana si confronta con nuovi formati pubblicitari meno redditizi delle previsioni, come nel caso di «Stories» su Instagram. Mentre gli utenti aumentano meno che in passato: a fine giugno sono saliti a 2,23 miliardi, contro una stima di 2,25 miliardi, con crescita piatta in Nord America e in calo in Europa. La debacle di Facebook ha mandato il rosso l’intero listino tecnologico, a differenza del Nyse, che ha beneficiato delle nuove trattative tra Usa e Unione Europea per evitare una guerra commerciale. In calo di circa il 3%, a 1.808 dollari, anche Amazon.

Non tutti sanno che c’è un momento preciso in cui questo declino inizia ed una ragione che ha causato tutto ciò.

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La battaglia di un 30enne che inguaia Facebook, l’austriaco, Max Schrems, L’attivista per la privacy ha denunciato all’Authority irlandese il social network. Ecco la storia.

Max Schrems ha iniziato una battaglia per la privacy contro Facebook, nel 2011, dopo essere rientrato da un viaggio in California, l’allora studente di legge si accorge che il social network ha conservato i suoi dati in 1.200 pagine. Quando poi Edward Snowden ha rivelato l’esistenza del programma di sorveglianza Prism, Schrems si è convinto che i suoi dati e quelli degli europei non sono al sicuro, perché trasferiti in server in Usa e in altre zone del mondo da aziende come Facebook. Così nel 2013 l’attivista per la privacy presenta un ricorso all’Autorità per la protezione dei dati personali dell’Irlanda, dove sorge la sede europea del social network, ma il Garante per la privacy si rifiuta di aprire un’istruttoria, definendo il ricorso “frivolo”. Ma il giovane studente non si arrende e si rivolge alla Corte di giustizia dell’Unione europea, che, giusto due anni fa, invece pronuncia una sentenza in suo favore: “vista la sorveglianza indiscriminata, i nostri dati personali in mano agli americani non sono protetti, per cui i giganti del web non possono trasferirli in automatico negli Stati Uniti”. In particolare la Corte ha dichiarato “il Safe Harbor non valido” e ha aggiunto che “l’Authority irlandese deve valutare, secondo i diritti fondamentali degli europei, se far sospendere a Facebook il flusso di dati trasferiti.

Ma, nonostante questa sentenza, il Garante per la privacy irlandese non ha mosso un dito sebbene abbia il potere di farlo, come constatato dall’Alta Corte di giustizia dell’Irlanda ed ha passato la palla, alla Corte di giustizia europea, che in base l’articolo 4 del Standard Contractual Clauses e dell’articolo 28 della direttiva europea sulla privacy, l’Authority chiamata in causa può esercitare il potere di bloccare il trasferimento dei dati degli utenti europei di Facebook nei server della società negli Usa. Qualora potesse farlo si aprirebbe una nuova era della privacy.

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Una dichiarazione più di tutte, da parte di Schrems, fa pensare quanto sia labile l’economia “virtuale” di Facebook:

– In base alla legge di tutela della privacy, se 50 milioni di persone citassero in giudizio il social network per una somma di circa duemila dollari ciascuno, farebbero fuori Facebook nel giro di poco, perché anche per Facebook questa sarebbe una somma di denaro improponibile.

Monica Mandico

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